Usare cellule dello stesso paziente per avviare un processo di rigenerazione capace di sanare le lesioni del piede diabetico. È la strada che l’Unità Operativa Complessa di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare si è impegnata a percorrere, testando diverse tecniche alla ricerca dei migliori risultati. Ma è solo uno degli aspetti che caratterizzano l’approccio del Neuromed verso una delle più importanti complicazioni del diabete.
Il cosiddetto piede diabetico è dovuto a due meccanismi distinti, entrambi scatenati dai danni che l’eccesso di glucosio nel sangue causa ai tessuti. Da un lato ci sono problemi ai vasi sanguigni, che portano alla graduale perdita di vascolarizzazione e quindi a una sofferenza dei tessuti con la comparsa di ferite. Dall’altro vi sono danni nervosi che provocano una mancanza di sensibilità nel piede, cosa che può impedire di avvertire il dolore delle ferite stesse. Combinati assieme, questi due elementi portano alla comparsa di ulcere la cui guarigione risulta particolarmente difficile e che possono peggiorare nel tempo, fino alla necessità di amputare l’arto.
“In passato – dice il dottor Francesco Pompeo, direttore dell’Unità – l’amputazione era un traguardo molto probabile per il paziente con piede diabetico. Oggi, grazie alla combinazione di diverse tecniche, riusciamo a ridurre notevolmente il numero di questi interventi, così drammatici per la vita delle persone”. Questo approccio di medicina rigenerativa apre nuove prospettive di trattamento e cura per lesioni cutanee associate anche ad altre patologie vascolari.
Una battaglia che vede un approccio su più fronti. Naturalmente la prima necessità è “rivascolarizzare”, in altri termini riaprire quelle arterie danneggiate e ripristinare un corretto afflusso di sangue. Questo si ottiene con la chirurgia endovascolare. “I pazienti diabetici – spiega il dottor Enrico Cappello, responsabile della sezione di Chirurgia Endovascolare – quando arrivano allo stadio di piede diabetico sono molto fragili, potremmo chiamarli “pazienti di cristallo”. E vanno gestiti con la minore invasività possibile. Ecco perché la strada endovascolare è quella preferenziale. Si entra nelle arterie attraverso piccoli buchi nella pelle, e poi arriviamo alle zone occluse come se navigassimo all’interno di un labirinto. Il tutto con l’aiuto di un apparecchio radiografico che ci fa capire come le sonde si stanno muovendo all’interno del corpo del paziente. Intendiamoci: non abbiamo una vera e propria guida, un navigatore. Tutto è sempre basato sull’esperienza dell’operatore”.
E per il paziente i vantaggi sono importanti. “Sostanzialmente – dice ancora Cappello – non c’è dolore. Si utilizza lo stesso tipo di anestesia di un intervento a un dente. E quando si naviga all’interno dei vasi il paziente non avverte assolutamente nulla”.
Ripristinato un corretto afflusso di sangue, le ferite potranno cominciare a guarire. E qui entra in scena l’altro approccio: la Medicina Rigenerativa, che si avvale delle terapie cellulari per riparare i tessuti danneggiati.
“La medicina rigenerativa – dice la dottoressa Alba Di Pardo, responsabile delle procedure di preparazione di cellule autologhe, è oggi un argomento di particolare interesse per la comunità scientifica. La tecnica che abbiamo scelto qui al Neuromed per i pazienti diabetici parte da un comunissimo prelievo di sangue venoso. Il sangue viene poi immesso in un dispositivo che lo filtra fino ad ottenere un concentrato di un particolare tipo di cellule sanguigne: le cellule mononucleate. Iniettate nella regione perilesionale, queste cellule, grazie alla loro elevata plasticità ed alta capacità differenziativa, sono in grado di stimolare la rigenerazione del tessuto danneggiato, ripristinando un equilibrio che si perde con la patologia”.
“Una volta preparato il concentrato – spiega Pompeo – lo iniettiamo tutto attorno alla lesione. I monociti favoriscono i processi di guarigione, intervengono sullo stato di infiammazione e inducono la formazione di nuovi microvasi sanguigni in quella zona. Il risultato è che vediamo guarire in modo più rapido anche ulcere molto resistenti. E bisogna considerare che questi pazienti hanno spesso dolori lancinanti in corrispondenza delle lesioni. Già con la prima applicazione di questo trattamento i dolori spariscono”.
La procedura standard prevede almeno tre applicazioni a distanza di 30-45 giorni l’una dall’altra, che posso aumentare di numero in base al tipo di lesione. Inoltre le stesse cellule possono svolgere anche un altro ruolo, come spiega ancora il Responsabile dell’Unità: “In alcuni casi in cui la rivascolarizzazione è particolarmente difficile, possiamo iniettare il concentrato anche lungo il percorso di un’arteria occlusa. Qui i monociti potranno stimolare una neoangiogenesi (formazione di nuovi vasi, ndr) che darà un ulteriore aiuto a ripristinare il flusso sanguigno verso l’arto”.