Il farmaco che “stura” le arterie

il dottor Antonio SparanoRiaprire un’arteria bloccata da un trombo, sciogliere il coagulo e ripristinare così l’afflusso di sangue a organi preziosi come cuore o cervello. Il tutto semplicemente con una iniezione endovenosa, una tecnica chiamata trombolisi. È un pezzo di storia della medicina che vale la pena raccontare, quanto meno per le centinaia di migliaia di vite umane salvate a partire dagli anni ’80.

La strada non è stata facile, e si è dovuti partire da lontano, se si considera che alla fine dell’800 non era ancora chiaro cosa causasse realmente un infarto o un ictus cerebrale. Con il passare del tempo si arrivò a considerare la formazione di un coagulo sanguigno, identico a quello che vediamo sulle ferite, come il responsabile principale del blocco della circolazione (la cosiddetta ischemia). Nel frattempo, agli inizi degli anni ’30, nell’università statunitense Johns Hopkins individuarono un tipo di batteri capace di produrre una sostanza, la streptochinasi, che scioglieva la fibrina, la molecola che forma la struttura di base del coagulo. Ma la streptochinasi non agiva da sola: semplicemente “attivava” un’altra molecola presente nel sangue, il plasminogeno, che avrebbe fatto il resto del lavoro.

Con questi dati si poteva cominciare a pensare a farmaci capaci di “sturare” le arterie. E meno di quaranta anni fa inizia quella che viene chiamata l’era moderna della trombolisi. I vari trattamenti vennero via via sperimentati, soprattutto nei casi di infarto cardiaco, fino a diventare pratica comune, con il farmaco chiamato tPA che ha sostituito gradualmente la streptochinasi.

In pratica, il tPA entra in circolo e attiva il plasminogeno che diventerà plasmina, un enzima capace di sciogliere la fibrina dovunque la incontri. Ma il sangue è una bilancia continuamente in bilico: troppo poca coagulazione provocherà emorragie. Per questo motivo l’attivazione eccessiva del plasminogeno, creando una distruzione completa della fibrina, può determinare un rischio emorragico che va sempre calcolato dai medici.

Oggi la cardiologia non si affida più come prima alla trombolisi perché le tecniche di rivascolarizzazione meccanica (un catetere che arriva alla coronaria e la sblocca con il classico palloncino) sono diventate sempre più diffuse. Il suo ruolo è invece ancora cruciale nel campo dell’ictus ischemico, che rappresenta l’80% di tutti gli ictus cerebrali.

“Quando un vaso cerebrale si chiude per un trombo – spiega il dottor Antonio Sparano, Responsabile del Centro per la diagnosi e la cura dell’ictus cerebrale (“Stroke Unit” nella definizione inglese) del Neuromed – abbiamo una zona centrale, direttamente interessata, in cui i neuroni muoiono rapidamente, in 5-6 minuti. Non si può fare nulla per questa area, ma c’è la zona circostante, chiamata “penombra”, in cui il danno non è immediato. È qui che possiamo salvare prezioso tessuto cerebrale”.

Ed è qui che entra in gioco la trombolisi. “Abbiamo un tempo limitato per intervenire. – continua Sparano, che è (anche) Professore associato di Neurologia alla Albany Medical Center (Albany NY), Stati Uniti – La trombolisi con tPA iniettato per via endovenosa deve essere eseguita entro 4 ore e mezza dall’esordio della sintomatologia ischemica, prima la si pratica migliore è la prognosi e minori sono i potenziali effetti collaterali. Il tempo è tutto: dall’inizio dei sintomi deve immediatamente attivarsi tutta una rete capace di gestire il paziente e farlo arrivare nel più breve tempo possibile nel posto giusto affinché si possa intervenire. Senza questa organizzazione, tutte le ricerche dei decenni scorsi vengono vanificate”.

Come è avvenuto per le coronarie, anche per l’ictus si sta sempre più sviluppando una terapia “meccanica” che in alcuni casi si aggiunge a quella farmacologica: inserire un catetere nel sistema circolatorio e arrivare al trombo in modo da rimuoverlo e riaprire l’arteria. “La trombectomia meccanica – spiega Sparano – può essere impiegata in determinati casi di ictus. Ha bisogno di una struttura molto complessa per via delle professionalità e delle tecnologie necessarie, ma c’è il vantaggio di avere più tempo a disposizione: qui il limite è di sei ore, e in alcuni casi molto selezionati si può arrivare a 24 ore, secondo recentissime evidenze scientifiche”.

Insomma, forse la trombolisi è destinata, come è successo a tante altre innovazioni scientifiche, a essere rimpiazzata quasi del tutto da altre tecniche più innovative. Ma, se succederà, andrà in pensione con un curriculum di tutto rispetto: grazie ad essa la percentuale di persone morte nei primi 30 giorni dopo essere state colpite da infarto passò dal 25-40% degli anni ’70 al 5-10% del 1989. E per quanto riguarda l’ictus, prima del 1995, anno in cui la trombolisi iniziò ad essere usata anche in questo campo, i medici non potevano fare altro che aspettare e vedere quanto danno fosse stato causato al cervello.

“Va sottolineato – conclude il responsabile della Stroke Unit Neuromed – che l’approccio multidisciplinare, a prescindere dal trattamento trombolitico, consente di avere una migliore prognosi per i pazienti affetti da malattia cerebrovascolare acuta. Questo dato dovrebbe indurre il sistema della rete di emergenza a convogliare in maniera più rapida possibile i pazienti verso le stroke unit territoriali di riferimento”.

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