Il mal di testa è da sempre un protagonista del folklore popolare, tra battute e facili scuse utili per evitare qualche compito poco gradito. Ma, al di là della barzelletta o della frase buona per un vecchio film comico degli anni ’80, ciò che la medicina chiama più specificamente “cefalea” può diventare un problema molto serio.
Per molte persone la cefalea può essere un disturbo occasionale, il classico cerchio alla testa che viene quando si è sotto stress per un esame o si è esagerato la sera prima con il cibo o l’alcol. Una pillola, una bustina sciolta nell’acqua, oppure semplicemente si aspetta un po’ e tutto torna a posto. Non è così però per quei dieci milioni di Italiani (2 miliardi e mezzo in tutto il mondo, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità) che ne soffrono in modo più frequente e più grave, fino ad avere in alcuni casi un peggioramento significativo della propria qualità di vita.
L’Unità Operativa di Medicina delle Cefalee dell’IRCCS Neuromed di Pozzilli, centro accreditato dalla Società Italiana per lo Studio delle Cefalee (SISC), affronta quotidianamente questi problemi. Accoglie persone che da tempo convivono con il mal di testa, che spesso hanno tentato a lungo di gestire la situazione con i farmaci, fino a non averne più giovamento. E accogliere ed ascoltare è un termine molto importante, perché la cefalea ha una sua storia, diversa da persona a persona. Proprio questa storia è fondamentale per affrontarlo correttamente.
“Inquadrare a dovere un mal di testa – dice la dottoressa Anna Ambrosini, responsabile dell’Unità Operativa – è un lavoro lungo e complesso, che richiede un grande dialogo ed una notevole capacità di analisi. Nel corso di una Prima Visita per cefalea, ad esempio, dobbiamo porre ai nostri pazienti più di 300 domande, nono solo sulle caratteristiche temporali e qualitative del loro mal di testa, ma anche sulla loro salute in generale e sul loro stile di vita. Il fatto è che non esiste per il momento alcun esame specifico capace di dirci se la persona davanti a noi ha un tipo di mal di testa oppure un altro – secondo la Classificazione Internazionale delle Cefalee ne esistono più di 200 tipi! Non possiamo fare un test e leggere un risultato. Il suo racconto, la sua esperienza personale, sono fondamentali per operare una diagnosi corretta e proporre un eventuale percorso terapeutico personalizzato”.
C’è un momento nella vita di chi soffre di mal di testa. Avviene quando diventa un vero problema, quando non è più qualcosa che capita una volta ogni tanto (è da ricordare che in Italia il 52% delle donne ed il 42.8% degli uomini ha avuto almeno un episodio di cefalea nello scorso anno), oppure quando si comincia a prendere antidolorifici un po’ troppo spesso. “Quella è una fase molto importante. – continua Ambrosini, che dal 2015 è membro del Consiglio Direttivo della International Headache Society (IHS), la più importante società scientifica a livello mondiale nel campo delle cefalee – Il paziente può trovarsi ad assumere farmaci sempre più spesso, a lasciare che la cefalea condizioni la sua vita e le sue scelte. Oppure può cominciare a cercare compulsivamente le possibili cause del suo mal di testa. Esistono, è vero, cefalee attribuibili ad alcune patologie organiche o meno, sia triviali che molto serie: sono le cefalee definite secondarie, che possono essere trattate curando la malattia che ne è alla base, quando questo è possibile. Ma rappresentano solo il 10% dei mal di testa, e sono sempre riconoscibili dal Medico esperto di cefalee che esegua una anamnesi accurata ed un buon esame clinico. La stragrande maggioranza dei casi di mal di testa è invece rappresentata da cefalee primarie, in cui la cefalea stessa è la malattia ed il dolore ed i sintomi che lo accompagnano sono soltanto un’espressione della malattia. Arriva un momento in cui, dopo aver fatto i necessari esami per escludere la presenza di altre malattie patologie, qualora ve ne sia il sospetto, il mal di testa cronico deve essere trattato per quello che è: una patologia precisa a sé stante, che ha bisogno di un percorso specialistico adeguato”.
Forse è proprio a causa della grande diffusione di questo problema, quasi a vederlo come qualcosa di familiare, che in tutto il mondo manca una “cultura” del mal di testa, come sottolinea la responsabile dell’Unità Operativa: “le cefalee rappresentano il disordine neurologico più diffuso, eppure non c’è una adeguata consapevolezza da parte di chi ne soffre. A volte neanche da parte degli stessi medici. Può succedere che vengano considerate soltanto come un “fastidio” con cui convivere”.
E spesso le cose possono peggiorare. Col tempo i normali antidolorifici, presi a dosi troppo alte o con troppa frequenza, diventano non soltanto inefficaci ma persino dannosi, determinando la cronicizzazione della malattia.
La risposta è nel percorso specialistico, “che seguirà il paziente per tutta la vita. – commenta Ambrosini – Dalle cefalee primarie non si può guarire. E’ un po’ come l’ipertensione arteriosa essenziale o il diabete mellito: si può trattare, si può tenere sotto controllo, si può curare, ma sappiamo (e lo deve sapere il paziente) che non si risolverà mai definitivamente”.
Tra i diversi tipi di cefalee primarie ce n’è una particolare: l’Emicrania, la più comune tra le cefalee “debilitanti”, cioè capaci di provocare una decisa riduzione della qualità della vita. Non è solo un problema del singolo individuo: a parte i costi delle cure e delle visite, che gravano sul Sistema sanitario nazionale, l’Emicrania pesa molto anche sui familiari, fa perdere ore di lavoro, diventa insomma un carico per l’intera società.
“Nell’Emicrania – spiega la responsabile dell’Unità Operativa del Neuromed – il dolore è solo uno degli aspetti di quella che va considerata una vera sindrome. E’ un quadro complesso, nel quale può anche accadere che altri fattori (ad esempio la nausea, spesso presente, o il fastidio causato dalla luce o dai rumori) diventino persino più importanti del dolore nel limitare la vita quotidiana del paziente. Sappiamo che questa patologia ha una forte predisposizione familiare, cosa che ci fa puntare verso una base genetica. Ma esiste anche una grande variabilità da persona a persona, senza dimenticare il ruolo svolto da alcuni ormoni – le donne ne soffrono tre volte di più rispetto agli uomini. Su questa predisposizione alla patologia emicranica un ruolo importante nell’”innescare” le crisi cefalalgiche è svolto dai cosiddetti “trigger”, i fattori di scatenamento di un attacco di Emicrania. In alcuni casi può trattarsi di alcuni cibi, oppure qualche variazione nelle abitudini quotidiane, come svegliarsi più presto o più tardi del solito o saltare i pasti. Un ruolo importante giocano anche le fluttuazioni ormonali che si verificano durante il ciclo mestruale. Ma di trigger ce ne sono tanti, diversi da persona a persona, e spesso il paziente non ne è consapevole. Ecco perché consegniamo ad ogni paziente del materiale informativo ed un vero diario da compilare, dove annoterà la comparsa di episodi di emicrania, gli eventuali fattori che possano averli provocati ed i farmaci sintomatici utilizzati. In questo modo sapremo con maggior dettaglio gli aspetti qualitativi e temporali della loro cefalea, quali sono i possibili trigger di quella persona, l’efficacia o meno del trattamento utilizzato nella gestione della crisi, e potremo quindi aiutarlo a gestire al meglio la propria cefalea”.
Oltre alla prevenzione legata alle abitudini di vita, nella terapia dell’Emicrania entrano naturalmente in gioco anche i farmaci: “Dobbiamo considerare due fasi. Abbiamo il trattamento preventivo, nel quale vengono usati farmaci anche molto diversi tra loro che, usati comunemente per altre patologie, si sono rivelati utili anche nel ridurre gli episodi di emicrania. Una nuova frontiera nel trattamento di prevenzione dell’Emicrania è anche la neuromodulazione non farmacologica: alcuni dispositivi elettrici o magnetici specifici ad esempio, usati quotidianamente possono aiutare nel ridurre la frequenza delle crisi cefalalgiche. E c’è la fase di gestione dell’attacco. I comuni analgesici, se funzionano e se presi ai dosaggi adeguati, per alcuni pazienti possono essere di aiuto, ma molto spesso è necessario utilizzare farmaci più specifici, spesso con una gestione “stratificata” dell’intervento che prevede anche l’utilizzo di più farmaci in sequenza”.
E quante sono le storie di successo? “Possiamo dire che otteniamo miglioramenti significativi nel 70-80% dei casi. Le varie strategie che mettiamo in atto puntano a gestire la patologia, a limitarla, restituendo qualità della vita al paziente. Ma ripeto, è un percorso che dura molto a lungo. E che deve vedere una collaborazione strettissima tra il paziente, il suo medico ed altri eventuali specialisti”.